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Violenza nelle relazioni intime e rischio suicidario: lo studio dell’Università di Torino che cambia la prospettiva

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di Redazione

24/11/2025

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Parlare della violenza che si consuma nelle relazioni affettive significa entrare in un territorio dove la sofferenza non si limita ai segni visibili sul corpo, ma scava in profondità, fino a erodere identità, orientamento emotivo e capacità di percepire una via d’uscita. La ricerca condotta dal gruppo dell’Università di Torino — composto da Georgia Zara, Paola Torrioni e Agata Benfante — offre un quadro che costringe a volgere lo sguardo oltre il fenomeno in sé, mettendo in luce la sua forma più estrema e disperata: la spinta al suicidio.

Un rischio che nasce dal silenzio e dalla distruzione dell’identità

La revisione dei 22 studi analizzati, pubblicata sulla rivista Trauma, Violence & Abuse, mostra come la suicidalità sia spesso il punto finale di un processo in cui la violenza esercitata dal partner agisce come un corrosivo che annulla progressivamente il senso di sé. Colpisce, scorrendo i risultati, la ricorrenza del vissuto descritto da molte donne: sentirsi prigioniere in una situazione che appare immutabile, dove la via di fuga si restringe fino a trasformarsi in un punto, e quel punto coincide con l’idea della morte come unica possibilità.

La violenza fisica, psicologica, economica o sessuale appare sempre intrecciata a una vulnerabilità crescente, che porta le vittime a vivere il presente come un territorio ostile e il futuro come un concetto irraggiungibile. A ciò contribuisce anche la scarsa capacità dei contesti sanitari di intercettare i segnali, in particolare quando l’accesso al pronto soccorso avviene dopo un tentativo di suicidio.

Il pronto soccorso come nodo essenziale della prevenzione

È proprio su questo aspetto che la ricerca torinese insiste con forza: il pronto soccorso rappresenta un passaggio decisivo, un luogo dove il gesto suicidario può diventare finalmente raccontabile, purché il personale sia formato per riconoscere la violenza nelle sue molteplici manifestazioni. La mancata identificazione dell’IPV al momento del ricovero produce una conseguenza drammatica: molte donne, una volta dimesse, tornano nella stessa casa dove il partner maltrattante continua ad agire violenza, in una spirale che rischia di condurle nuovamente all’autolesionismo.

L’indagine pone così l’accento su un bisogno concreto: dotare i professionisti dell’emergenza di strumenti di ascolto e valutazione specifici, in grado di trasformare il pronto soccorso da luogo di sola cura fisica a presidio in cui la violenza possa emergere e essere affrontata con un intervento integrato. Non un compito individuale, ma un processo che richiede una rete istituzionale solida, capace di collegare sanità, servizi sociali e giustizia.

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